Semi-editoriali

Melina (e tanta pretattica).

(questa non è mia e anche se si vedono ciclisti, mi sembrava molto evocativa lo stesso)

(questa non è mia e anche se si vedono ciclisti, mi sembrava molto evocativa lo stesso)

Ho deciso di aprire un blog, ma forse non avevo capito a cosa dovevo puntare. Probabilmente era lì, sulla punta della lingua, ma non è mai riuscito ad esprimersi. Sì, ho fuso ironia, dati, risultati e riflessioni, ci ho provato. Ma il risultato è che spesso mi ritrovavo a dover inserire “per forza” certe cose, camminare alla stessa velocità dell’attualità e stare sempre sul pezzo.

Poi, conoscendomi, dopo una lunga pausa, ho capito che sicuramente non sarei mai riuscito ad andare dietro all’informazione dei nostri tempi. Troppo veloce, tutto. Uno/due/tre giorni dopo una partita e già è stato detto di tutto, pure troppo.

E che spazio mi resta?

Ciò che mi si addice, che si adegua alle mie tempistiche, è altro: non stare col fiato sul collo di nessuno, fare serenamente mente locale, scrivere per dire qualcosa e divertirmi, ironizzare su molti aspetti esasperanti del mondo del pallone. Che sarà un piccolo mondo, ma risulta comunque fin troppo “saturo” di roba.

La spinta a rifletterci su m’è venuta sfogliando, per caso, i bellissimi articoli di Gianni Brera (melina e pretattica sono solo due dei suoi milioni di neologismi del giornalismo calcistico) sulle due Coppe Intercontinentali vinte dalla Grande Inter degli anni 60 (in un ormai vecchio volume commemorativo dell’Inter Mourinhana). Roba che non si trova più in giro nemmeno a pagarla oro, roba che esula da qualsiasi normalità linguistica e giornalistica, roba di classe, roba d’altri tempi, appunto. Dopo settimane di assenza, m’è tornata la voglia di parlare di calcio.

E non cronaca calcistica, ma calcio. Autentico, stupido, ignorante, romantico.

Non sarà Gianni Brera, ma è un nuovo inizio.

A presto,

il vostro caro Raccattapalle.

La Roulette Cinese: di allenatori è pieno il mondo.

MAZZARRI  BLOG

Diciamoci la verità: stiamo tutti qui a fare i buonisti e gli esteti del calcio, a tifare per il gioco di squadra e a dire “non è mai solo colpa del singolo“, che nel calcio ci vuole pazienza e per costruire una squadra ci vuole del tempo, ci vuole la famosa amalgama del gruppo, eccetera eccetera.

Sì, sì. Nn’è vero. In fondo sappiamo tutti che il capro espiatorio è sempre uno: l’allenatore.

Allenatore, coach, mister, manager, come lo si voglia chiamare, la sostanza  non cambia. L’allenatore è una figura così unica da trovare pochi paragoni negli altri sport: l’allenatore di calcio è più di un semplice trainer. Si occupa delle interviste (anche perché, difficilmente trovi calciatori che riescano a sostenere una discussione, forse il ricordo delle interrogazioni a scuola è ancora una ferita aperta per molti di loro), è il tutore dell’intera squadra, sbraita in panchina e si prende tutti gli insulti dei tifosi, vince ma è merito di Ibrahimovic, perde ed è tutta colpa sua, perché non ha fatto entrare Zola, o peggio ancora, perché non convoca Cassano (sì, tra gli allenatori il più sfigato è sicuramente il ct delle Nazionali).

Insomma, l’allenatore è il parafulmine annerito dell’intera tempesta calcistica. L’opinione pubblica lo rode per tutta la sua (spesso lunghissima) carriera, lo mangiucchia come fa un bambino delle elementari col tappo delle Bic e poi lo butta nei peggiori gironi degli inferi.
Ecco perché gli allenatori cominciano a diventare molto nervosi (tipo Malesani in Grecia), si fanno venire i capelli bianchi (Mourinho all’Inter), perdono il buon gusto sfoggiando dei cappellini orridi (Bisoli, Cosmi) e invocano per 20 anni la pensione (come Lippi, che però ha provato con successo il metodo alternativo della pensione d’oro in Cina, mica scemo).

Perché non sono tutti Ancelotti (che però, ricordiamocelo, non volle prendere Baggio al Parma perché il Divin Codino non si accordava col suo modulo) o Guardiola, che hanno quasi sempre vinto e quindi zitti tutti.

Non è che tutti possano dire “zeru tituli” senza prendersi sberle in faccia.

No, nel 90% dei casi gli allenatori sono bestie al macello dirottate di città in città nella speranza di sopravvivere il più possibile, cercare di firmare un contratto di lunga durata (e senza risoluzioni pacifiche nel momento dell’esonero) e augurarsi di finire in una big (così da assicurare un buon futuro economico a figli e nipoti, che di ‘sti tempi non si sa mai).

Prendete Mazzarri, poraccio. E’ uno dei pochissimi allenatori che non ha mai avuto il piacere di essere stato esonerato, durante la sua già lunga carriera di provincia. Mazzarri è sempre stato furbo: quando ha visto che le cose non andavano o potevano andare meglio, ha sempre optato per la via delle dimissioni, sempre con un contratto già pronto con un’altra squadra, in genere di un gradino più alta della precedente.

Così la scalata è bella e pronta, degna di una carriera allenatore in Fifa : Acireale-Pistoiese-Livorno-Reggina- Sampdoria- Napoli- Inter. L’allenatore della “Coppa di Toscana” (cit. Mourinho) aveva calcolato tutto, tranne i giochi beffardi del destino. Perché ora il rischio che venga “silurato” per la prima volta è ampiamente tangibile, dopo l’ennesima prova di un’Inter fragile come un origami, che si becca il tacco di Javier Saviola al 90° e deve rendersi conto dei 2 miseri punti nelle ultime 3 partite, dopo un avvio di campionato già abbastanza disastroso. C’è da dire che Mazzarri non è stato l’essere più fortunato di questa terra in questo anno e mezzo all’Inter: non ha effettivamente mai avuto giocatori utili al suo canonico 3-4-3 (che diventa un 3-5-2 o un 3-6-1 all’occorrenza, senza che questo cambi minimamente l’esito di ogni partita), si è visto negare rigori per un anno, ha subito il cambio di proprietà e successivamente l’addio del presidente che l’aveva scelto, non ha saputo resistere alla pressione di una piazza come quella di Milano.

Ma l’Inter non gioca effettivamente a calcio dai tempi di Leonardo (annata 2011): e se questo è stato un problema anche dei vari Gasperini, Ranieri e Stramaccioni, non si può dire che Mazzarri non abbia colpe, se in un anno e mezzo ha fatto annoiare a morte i suoi tifosi (pure Thohir in panchina si ammazza di sbadigli e partite a Candy Crush, poraccio pure lui), con una squadra che passa 90 minuti a passare palla a centrocampo e si riduce a perdere col Parma che ne ha prese 7 (un numero che quest’anno ritorna spesso) una settimana dopo dalla Juve. Non va, non so se andrà, non so se Mazzarri sopravviverà alla dura legge dell’esonero anche questa volta (e ciò mi sembra ormai difficile, perché prima o poi il buon Erick staccherà gli occhi dallo smartphone e si accorgerà di tutto).

E dire che, a Napoli, Mazzarri fece benissimo, con una squadra nettamente meno “top player” di quella attuale di Benitez, riportando i partenopei in Champions dopo secoli, dando il ruolo perfetto ad Hamsik e soprattutto facendo diventare Cavani un bomber di caratura internazionale. Mica fuffa, insomma.
Ma il calcio è bello perché è stronzo, e l’Inter è l’Inter perché è un buco nero calcistico, una bolgia dove non sai se esci vivo o morto, neanche se sei Lippi, Berkamp, Forlan, Cannavaro, Ivan Drago.

E se non se la passa bene Walterone, immaginatevi come deve stare, in quel di Parma, il povero Donadoni: l’anno scorso la squadra parmigiana convinse tutti per il suo gioco arioso e spettacolare e approdò in Europa League (per poi finire estromessa dalla competizione per strane robe burocratiche).
La Serie A riebbe il miglior Cassano degli ultimi anni, oltre alle sorprese Paletta- Parolo (tutti e tre poi convocati al mondiale brasiliano). Pochi mesi dopo, il Parma si ritrova ultimo in classifica, a 6 miseri punti (di cui 3 presi all’Inter, naturalmente, come il Novara di qualche anno fa), con una squadra distrutta, un Biabiany mai partito e scontento, un Cassano che predica nel deserto e un Parolo migrato verso altri, più felici, lidi (l’ottima Lazio di quel vecchio volpone di Pioli). Donadoni, al contrario di Mazzarri, non ha mai avuto tanta fortuna nella sua, ancora giovane, carriera: sorpresa al Livorno, fu chiamato, forse troppo presto, in Nazionale, dove si ritrovò, non per colpe del tutto sue, bloccato nelle sabbie mobili della caccia alle streghe post- eliminazione all’Europeo 2008 (ai rigori, ai quarti, contro la Spagna poi campione di tutto). Neanche nel giovane Napoli degli ultimi anni Zero andò benissimo per l’ex ala del Milan, che dovette accontentarsi di stagioni mediocri, accuse di De Laurentis, rumori della piazza e conseguente e classico esonero. Parma sembrava invece un’isola felice (quello che è sempre stata, d’altronde: uno come me, nato e cresciuto tra anni 90 e 2000, ricorda sempre con nostalgia il forte Parma di Crespo, Buffon e Thuram), nota per aver sempre rivalutato giocatori che sembravano finiti, persi o troppo acerbi (Adriano, Mutu, Cassano, Rossi, Gilardino…), città piccola e tranquilla, piazza perfetta per fare del calcio. Sembrava, appunto. Dopo il caos del mancato ingresso in Uefa, dopo la rabbia di Ghirardi, dopo le incertezze della proprietà all’alba del Centenario, dopo l’ultimo posto e il disonorevole 7-0 contro la Juve, quella realtà incantata sembra così lontana…

Ecco, se c’è una cosa che un allenatore non potrà mai avere nel corso della sua carriera è la certezza: a meno che tu non sia Alex Ferguson ( e solo Ferguson, perché 20 anni sono un’enorme anomalia calcistica), non potrai mai essere del tutto sicuro di non dover fare le valigie l’indomani mattina.
Pure se sei Montella, hai espresso uno dei giochi più belli della Serie A con la Fiorentina, hai mezza squadra rotta male e sei primo nel girone di Europa League. Se non stai attento, rischi di cadere dal cielo anche tu.
Pure se, subentrando a metà stagione, fai vincere la prima Champions della storia al Chelsea e poi nella stagione seguente perdi troppe partite di seguito (e soprattutto non hai l’appeal degli sponsor), come Di Matteo tempo fa. Capita di tutto eh.

Ma non era forse meglio andare in Cina?